Beneficenza


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Nel campo dell'assistenza e della beneficenza l'arrivo dei Francesi in Italia a fine '700 portò con sé una graduale ma profonda rivisitazione della complessa struttura che caratterizzava la Lombardia. Il 5 settembre 1807 venne stabilita la competenza generale del Ministero per il culto e la divisione del regno d'Italia in quattro circondari ciascuno affidato a un Ispettore generale. Il regio decreto 21 dicembre 1807 n. 279 determinò gli oggetti di beneficenza pubblica che passarono nelle attribuzioni del Ministero dell'interno. I comuni venivano incaricati di supplire "ai bisogni degli ospitali, orfanotrofi, conservatori d'esposti e degli istituti elemosinieri" e tutti i beni spettanti a tali stabilimenti ed istituti sarebbero stati amministrati sotto il nome di "Congregazioni della carità" da un "certo numero di probi e distinti cittadini del comune". Nei comuni con popolazione inferiore a 50.000 abitanti i membri, non più di sei, non meno di quattro, nominati dal podestà; dovevano far parte di tale collegio il podestà e il parroco del luogo.
Durante la Restaurazione post napoleonica, il governo Lombardo Veneto operò un'inversione di marcia completa: le Congregazioni di carità vennero soppresse e le singole opere pie (genericamente indicate come stabilimenti) ripristinate nella loro autonomia. L'assistenza pubblica prevedeva l'assistenza sanitaria ai poveri, la distribuzione gratuita di medicinali, il mantenimento dei mentecatti poveri, il mantenimento degli indigenti inabili al lavoro, degli orfani e dei minori abbandonati, l'assistenza a varie categorie di malati. I comuni erano incaricati di supplire i bisogni degli ospedali, orfanotrofi e altri istituti elemosinieri. Se tali istituti mancavano nei comuni, questi dovevano sopperire proporzionalmente alle spese di mantenimento dei bisognosi (gli istituti per il ricovero degli esposti e dei pazzi erano retti dall'amministrazione dello Stato, il mantenimento era corrisposto dal Tesoro).
L'Unità portò anche in questo campo alla necessità di armonizzare legislazioni assai diverse nella loro filosofia di fondo. La prima legge sulla beneficenza risale al 3 agosto 1862 (regolamento 27 novembre) e recepì la legge Rattazzi del 20 novembre 1859 relativa al regno sabaudo ispirata al modello del Belgio. Le opere pie soggette alla legge erano "gli istituti di carità e di beneficenza, e qualsiasi ente morale avente in tutto o in parte per fine di soccorrere alle classi meno agiate, tanto in istato di sanità che di malattia, di prestare loro assistenza, educarle, istruirle od avviarle a qualche professione, arte o mestiere".
La tutela delle opere pie spettava alle deputazioni provinciali, elette dal consiglio provinciale e presiedute dai prefetti. Ad esse competeva l'approvazione dei consuntivi (ma non dei preventivi), dei regolamenti amministrativi, dei contratti d'acquisto e di vendita di immobili e delle delibere che modificassero il patrimonio. La legge del 1862 stabiliva la costituzione in ogni comune di una congregazione di carità formata da 4 - 8 membri, oltre a un presidente, eletti dal consiglio comunale. Le congregazioni dovevano amministrare i beni destinati genericamente ai "poveri" o per i quali nell'atto di fondazione non fosse specificata un'opera pia di riferimento.
Ciò introduceva una distinzione fra opere pie con un fine determinato, amministrativamente autonome, e opere pie "generiche" sottoposte a controllo comunale.
La legge nazionale era più arretrata rispetto a quelle precedentemente in vigore in Toscana, Lombardo - Veneto e Regno delle Due Sicilie nell'ottica di un sostanziale disimpegno governativo. Le opere pie furono considerate persone giuridiche di ragione privata aventi di "pubblico" la loro sfera di applicazione volta al soddisfacimento di bisogni collettivi. Alla base di questo "non intervento" stavano il dottrinarismo liberale (stato leggero), la volontà di non scontrarsi oltre con la Chiesa e la paura che l'intervento governativo ostacolasse la liberalità privata.
La legge non riuscì né a garantire i necessari controlli sull'amministrazione delle opere pie, né ad armonizzarne l'attività in un quadro nazionale né, infine, a favorire la formazione di enti nuovi pronti a soddisfare bisogni nuovi (si pensi alle obsolete opere pie di doti alle monache e alle necessità dell'infanzia alla luce dell'industrializzazione e del lavoro femminile). Molte istituzioni erano criticate per la pletorica e spesso clientelare amministrazione. La mancanza dell'obbligo del bilancio preventivo rendeva limitato ogni controllo sul consuntivo.
I nuovi enti erano altri: le società di mutuo soccorso (più di 3000 nel 1885) che non erano però considerate opere pie; gli asili infantili (più di 1300 ad inizio secolo); gli asili per lattanti, i ricreatori festivi, le colonie climatiche marine o montane, gli istituti ortopedici per rachitici, e per scrofolosi. Enti sorti per affrontare i nuovi bisogni di una società in via di rapida trasformazione.
Con quattro circolari emanate il 12 dicembre 1875 dal ministro dell'interno Cantelli si cercò di migliorare la legge del 1862 con l'intento di rafforzare i controlli su amministrazione e contabilità, senza grandi risultati ma indicando un cambiamento di segno, interventista. L'avvento di Crispi velocizzò questo processo: il progetto di riforma del settore fu presentato alla Camera il 18 febbraio 1889 e approvato e definitivamente sancito dal re il 17 luglio 1890. Idea nuova era che l'assistenza fosse una funzione pubblica che lo Stato aveva il diritto - dovere di gestire. Il termine "opera pia" fu sostituito da "istituzioni pubbliche di beneficenza". La congregazione di carità, nominata dal consiglio comunale, da facoltativa divenne obbligatoria (all'epoca erano solo 2000, 1500 delle quali in Piemonte e Lombardia) ed ebbe il compito di curare gli interessi dei poveri assumendone la rappresentanza legale, concentrando l'amministrazione delle opere pie elemosiniere dei singoli municipi. Si decise anche di trasformare quegli enti il cui fine fosse ormai superato o superfluo, doti per monacazioni, fondazioni per carcerati sostituite da patronati per i liberati dal carcere, i ritiri, gli eremi, le confraternite, le congreghe e le opere pie di culto. Alla giunta provinciale fu affidata anche l'approvazione dei preventivi. Fu anche deciso l'obbligo di versare in una cassa pubblica le somme eccedenti i bisogni ordinari, di dare di norma in affitto i beni immobili, di impiegare i capitali in titoli di Stato, di esigere la cauzione dai tesorieri e di procedere entro cinque anni all'affrancazione di legati, censi e livelli. Gli ecclesiastici aventi cura di anime (i parroci) non potevano far parte delle congregazioni di carità. Il Papa deplorò il progetto il 24 e 30 dicembre 1889 come antireligioso e anche i vescovi fecero lo stesso il 6 gennaio 1890 (1).
Il titolo è formato da 38 unità, 9 delle quali formano fascicoli particolari.
Oltre al ricovero degli esposti e degli interdetti altre attività documentate sono: la distribuzione di elemosine ai poveri, le distribuzioni straordinarie durante le crisi annonarie, i sussidi straordinari erogati ad personam, le liquidazioni alla farmacia comunale per le somministrazioni di farmaci ai poveri, le liquidazioni dei crediti dell'Ospedale Maggiore di Bergamo per cure prestate ai poveri, l'assistenza ai fanciulli, ai malati di pellagra, alle donne incinte. (1)

Nessuna unità

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