Industria e commercio


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L'alta valle Brembana (intesa nelle tre partizioni di Valtorta, valle Averara e Oltre Goggia) fu caratterizzata, in età moderna, da un'intensa e redditizia attività metallurgica favorita dalla presenza di numerosi giacimenti metalliferi (ferro, rame, piombo e zinco) e da una situazione geografica adatta allo stabilimento di impianti di lavorazione dei metalli. La zona rimase sempre maggiormente legata alla Valsassina piuttosto che alla valle Seriana e tale legame è confermato dalla presenza di valligiani attivi in quella valle nel settore metallurgico ed estrattivo quali gli Arrigoni, originari della valle Taleggio, o viceversa di valsassinesi come i Cuzio che da Primaluna si erano spostati in valle Brembana).
La vivacità economica delle comunità alpine, che determinava una conseguente vivacità culturale, fu favorita anche dai movimenti delle maestranze brembane attive in molte zone d'Italia.
Stretti appaiono i legami fra la valle Brembana e la Valtellina, con brembani proprietari di forni in val Tartano. La Valtorta, invece, fu sempre maggiormente legata alla Valsassina, infatti il ferro estratto nella val Varrone veniva di norma lavorato proprio a Valtorta. In questa zona della valle le maestranze erano specializzate nei lavori di fucina.
La presenza di molti forestieri (fra i quali non pochi svizzeri) in valle è documentata nei numerosi atti notarili nei quali agiscono in qualità di testimoni; si trattava probabilmente di mercanti legati anche all'indotto della pastorizia. In queste zone, la corretta e oculata gestione del patrimonio boschivo, il quale era in gran parte di proprietà comunale, non fece mancare il combustibile, come invece accadde altrove con il declino dell'attività metallurgica (Valsesia).
Dal punto di vista dei siti produttivi, prevaleva le proprietà frazionate (azionariato diffuso) degli impianti (forni divisi in "capi" e le miniere in "masse"). I soci ricevevano una quantità di materiale proporzionale alle quote possedute. La tendenza al frazionamento della proprietà del forno aveva un limite importante: ogni socio lo poteva usare per un determinato periodo di tempo, il materiale minerale era in genere lo stesso, ma non il carbone, quindi i prodotti erano poco uniformi. Il frazionamento, poi, rendeva difficili le innovazioni.
Lo sbocco principale per i metalli lavorati in valle era il Milanese. In valle Brembana non si producevano armi (come, invece, nella limitrofa valle Seriana), al massimo chiodi; in genere le esportazioni si incentravano sulla ghisa semilavorata (infatti è documentata la presenza di maestranze bresciane in valle, più esperte nella lavorazione).
Notevole era l'importanza dell'indotto sull'economia del territorio: mestieri collegati all'attività dei forni erano quelli degli carbonai, scalpellini, mulattieri, di cui l'aumento delle necessità alimentari e non, quindi dei commerci.
Il settore appare fiorente almeno fino a metà '500, dopo tende a calare (anche per l'aumento di pressione fiscale a causa di maggiori spese ad esempio per la costruzione della nuova cinta muraria di Bergamo, della fortezza di Palmanova e della nuova via Priula). Dagli inizi del '600, il declino, confermato dall'emigrazione dei mastri fonditori (analoga situazione nel bresciano).
Dopo la metà del secolo nuovi interventi veneziani sancirono la demanialità del sottosuolo, con la revisione delle concessioni e l'imposizione di una decima sull'attività estrattiva. Forte fu l'opposizione locale perché tali misure si aggiungevano alle limitazioni all'export verso Milano e violavano (secondo le comunità locali) i privilegi statutari delle valli (1).
L'attività estrattiva era ancora relativamente fiorente nel primo Ottocento, come testimoniato dalla documentazione d'archivio (2). Un Pietro Antonio Milesi di Cassiglio, ad esempio, risultava operante nel territorio di Carona (aggregato al comune di Branzi dal primo gennaio 1810 al 1815). Nello scavo delle cinque miniere (di cui non si indica il minerale estratto ma che presumibilmente era ferro) erano attivi 15 lavoratori, ai quali se ne aggiungevano altrettanti impiegati "nel lavoro". Due delle miniere erano aperte tutto l'anno, una per dieci mesi, una per sei e l'ultima per quattro.
Nell'aprile 1812 risultavano attive nove miniere di ferro che davano lavoro a 70 operai, ai quali se ne aggiungevano 16 impiegati nei due forni di fusione. E' probabile che queste miniere, come quelle di cui fa cenno nella nota precedente, fossero situate nel territorio di Carona.
Il secolo XIX vide, comunque, il definitivo declino sia delle attività estrattive sia di quelle della lavorazione del ferro. Le attività nel 1890 risultavano, infatti, orientate ormai verso il commercio al minuto e la trasformazione dei prodotti caseari.

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